Oggi la sostenibilità è un tema mainstream: se ne parla a scuola, al bar, nelle università, ed è spesso al centro del dibattito politico. Anche le aziende offrono prodotti sempre più green e si preoccupano che la loro immagine sia quella di un’organizzazione impegnata nella salvaguardia ambientale. 

Eppure non è sempre stato così. Quand’è che ci siamo iniziati a preoccupare dell’impatto che la nostra attività economica genera sull’ambiente?

Uno dei primi allarmi sulle possibili conseguenze negative del nostro sistema risale al 1972, quando il MIT pubblica un rapporto intitolato “I limiti alla crescita”. Lo studio mette in dubbio il mito che una crescita senza fine sia perseguibile all’interno del sistema ecologico terrestre. Ha inizio un lungo dibattito a cui, con il passare del tempo, partecipano governi, società civile, multinazionali, piccole imprese e ONG: la questione riguarda tutti. 

Nel 1988 viene creato l’’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) che, nel giro di due anni, conferma la necessità di cambiamenti radicali per evitare scenari drastici. 

Nel 1992 si svolge, a Rio de Janeiro, la conferenza delle Nazioni Unite passata alla storia come Earth Summit. È allora che ha inizio il lungo percorso, non privo di ostacoli, che porterà, nel 2015, alla stesura dell’agenda 2030: 17 obiettivi di sviluppo sostenibile, concreti, condivisi a livello globale, da raggiungere in 15 anni. 

Per far riferimento ad essi si usa la sigla SDGs, Sustainable Development Goals. 

Questi obiettivi mirano a eliminare la povertà, promuovere l’uguaglianza, proteggere l’ambiente e garantire la prosperità per tutti, in modo che nessuno sia lasciato indietro. Il termine “sostenibilità” assume in questo contesto una triplice dimensione: economica, sociale, e ambientale.

L’agenda 2030 è diventata, di frequente, il framework di riferimento per chiunque voglia cambiare le cose: un set di obiettivi che puntano in alto, utopici forse, che rappresentano una bussola da seguire per aziende, enti e individui che vogliono fare economia in un modo nuovo, in maniera attenta alla società e al contesto che li circonda.

Gli SDGs però non sono esenti da problemi. Insieme all’interesse dell’opinione pubblica su questi temi è cresciuta anche l’attenzione di governi e aziende. Ad alcuni casi di impegno concreto è corrisposto, purtroppo, l’emergere del fenomeno che poi è stato definito greenwashing: una pulizia di facciata portata avanti per mere velleità di marketing.

L’assenza di una definizione univoca di cosa sia sostenibile e cosa no, ha fatto sì che ogni organizzazione adottasse standard propri: il risultato sono report non comparabili, certificazioni di varia fattura e label poco chiari.

È in questo contesto che l’Unione Europea, nel 2020, ha implementato un regolamento volto a classificare le attività economiche in relazione alla loro sostenibilità ambientale. Il quadro della tassonomia europea riguarda gli enti finanziari, le grandi imprese e tutti i governi degli stati membri. Questo primo grande passo nel contrasto al greenwashing è fondamentale per poter indirizzare fondi e capitali verso una concreta transizione ecologica.

È proprio qui che entra in gioco la finanza. Banche, fondi, assicurazioni, investitori, e risparmiatori: che ci piaccia o no, la sfera finanziaria  riguarda ognuno di noi più di quanto si possa immaginare. La buona notizia è che si tratta di uno strumento capace di muovere un’enorme quantità di risorse, sta a noi utilizzarla nel modo giusto. 

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