Alla luce di quanto emerso nel precedente capitolo viene qui di seguito proposta un’analisi più approfondita delle criticità e dei controsensi che emergono dall’applicazione dei tre criteri nei contesti aziendali. 

Ambiente e greenwashing

I criteri ambientali degli ESG rappresentano forse l’esempio più lampante della distanza tra teoria e pratica nell’approccio della finanza tradizionale alla sostenibilità. Mentre sulla carta questi criteri misurano l’impatto ambientale delle aziende – dalle emissioni di CO2 all’uso delle risorse, dalla biodiversità all’economia circolare – nella realtà si traducono spesso in un esercizio superficiale di stile. La finanza etica osserva con preoccupazione come aziende petrolifere possano ricevere valutazioni ambientali positive semplicemente per aver adottato politiche di efficientamento energetico negli uffici, mentre continuano ad espandere l’estrazione di combustibili fossili. I rating ESG ambientali premiano spesso la presenza di politiche formali e target futuri, non i risultati concreti o la coerenza del modello di business con la transizione ecologica. Questo approccio ha alimentato un’industria del greenwashing dove l’apparenza di sostenibilità prevale sulla sostanza, permettendo a industrie intrinsecamente dannose per l’ambiente di presentarsi come “in transizione” mentre proseguono business as usual, ritardando così le azioni drastiche necessarie per affrontare l’emergenza climatica.

La Tassonomia Europea, pur rappresentando un tentativo di standardizzazione, ha mostrato i suoi limiti includendo attività controverse come il gas naturale e il nucleare tra quelle “sostenibili”, evidenziando come anche le definizioni istituzionali di sostenibilità siano soggette a compromessi politici ed economici che spesso contraddicono l’evidenza scientifica e il principio di precauzione che la finanza etica pone alla base delle sue scelte d’investimento.

Società e disuguaglianze

La componente sociale degli ESG, vista attraverso la lente critica della finanza etica, appare come la “sorella minore” trascurata nella triade. Mentre i criteri ambientali godono di crescente attenzione e quelli di governance sono apprezzati per il loro impatto sulla stabilità aziendale, le questioni sociali – dalle disuguaglianze salariali ai diritti dei lavoratori, dalla parità di genere al rispetto dei diritti umani lungo la catena di fornitura – restano spesso superficialmente valutate. Significativo è come molte aziende con eccellenti rating ESG presentino contemporaneamente livelli scandalosi di disparità salariale tra dirigenti e lavoratori, o paghino tasse irrisorie nei paesi in cui operano. La finanza etica rileva come i criteri sociali degli ESG tendano a concentrarsi su politiche interne alle aziende occidentali (come il numero di donne nel consiglio di amministrazione), ignorando sistematicamente lo sfruttamento del lavoro nelle catene di approvvigionamento globali o l’impatto delle attività aziendali sulle comunità del Sud globale. Questa selettività tradisce una visione coloniale del sociale, dove i diritti dei lavoratori e delle comunità più vulnerabili risultano subordinati alla narrativa del “capitalismo dal volto umano” che in realtà perpetua e talvolta aggrava le disuguaglianze strutturali.

Particolarmente problematico risulta il fatto che i criteri sociali sono fortemente influenzati da visioni culturali occidentali che non sempre tengono conto delle diverse realtà territoriali, sociali e culturali dei vari Paesi. Ciò che può essere considerato un progresso sociale in un contesto può risultare inappropriate o insufficiente in un altro, evidenziando la necessità di un approccio più contestualizzato e partecipativo nella definizione stessa di cosa costituisca un impatto sociale positivo.

Buon Governo e democrazia trasparente

I criteri di governance, analizzati con lo sguardo critico della finanza etica, rappresentano forse la contraddizione più profonda dell’approccio ESG. Sebbene questi criteri valutino formalmente elementi come la trasparenza, la composizione del consiglio di amministrazione, le politiche anticorruzione e i sistemi di controllo interno, essi raramente mettono in discussione la struttura fondamentalmente antidemocratica delle moderne corporazioni. La finanza etica osserva come aziende con eccellenti punteggi di governance possano contemporaneamente impegnarsi in attività di lobbying contro regolamentazioni ambientali e sociali, utilizzare paradisi fiscali, o mantenere strutture decisionali che escludono sistematicamente le voci degli stakeholder non finanziari. Il concetto stesso di “buon governo” viene così ridotto a una questione tecnocratica di gestione efficiente nell’interesse predominante degli azionisti, anziché essere interpretato come vera democrazia economica. Particolarmente critico è il fatto che i rating ESG di governance premino la gestione del rischio reputazionale piuttosto che l’effettiva responsabilità verso la società, creando una perversa situazione in cui un’azienda può eccellere in governance semplicemente gestendo bene la propria immagine pubblica mentre internamente continua a operare secondo logiche estrattive e di breve termine, antitetiche ai principi di trasparenza e democrazia economica che la finanza etica considera imprescindibili.

Questo aspetto si collega direttamente alle fondamenta culturali e valoriali diverse tra territori e nazioni: cos’è considerato “buon governo” varia significativamente non solo tra stati ma anche tra diverse tradizioni di pensiero economico e politico. La finanza etica riconosce questa diversità e promuove modelli di governance che valorizzino la partecipazione autentica, il pluralismo decisionale e la responsabilità verso tutte le parti interessate, superando l’approccio standardizzato e spesso superficiale dei criteri ESG convenzionali.

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